In questa selezione delle Massime (1665) La Rochefoucauld, moralista del XVII secolo, ci parla dell’Amor proprio e delle sue astuzie. Non possiamo fare a meno di ravvisare in questa descrizione un fedele ritratto di quella disfunzione del sé che, meno familiarmente, Ostad Elahi chiama Io Imperioso.
Lo scritto che segue, in ogni caso, non ci dà che un assaggio del labirinto in cui è facile smarrirsi quando ci si priva della luce divina; una pallida idea del lavoro immenso che ci aspetta se vogliamo smascherare – o perfino controllare – l’Io Imperioso e, quindi, farci strada, passo dopo passo, verso la vera umanità.
Due suggerimenti al fine di trarre il massimo vantaggio dalla lettura: innanzitutto prendiamoci il tempo necessario per leggere le Massime lentamente ma in blocco.
Eben Alexander: Milioni di farfalle, Mondadori Editore, 2013.
Il 10 novembre 2008, il dottor Eben Alexander, neurochirurgo e ricercatore di fama internazionale, docente, in particolare alla Facoltà di medicina di Harvard e operativo nei più grandi ospedali americani, cadeva in un coma profondo che si è prolungato per sette giorni.
La causa sarà diagnosticata qualche giorno più tardi; si tratta di una malattia rara poiché meno di un adulto su 10 milioni la contrae spontaneamente ogni anno: una meningite collegata al batterio Escherichia coli.
L’arte di essere gentili: dimostrare che la gentilezza, contrariamente a ciò che la gente sostiene, non é una debolezza bensì una qualità etica. Un compito non semplice, ma Stephan Einhorn, oncologo presso l’Ospedale di Karolinska di Stoccolma, propone una tesi molto convincente nel suo libro Essere buoni conviene. Stefan Einhorn parte dalla constatazione che la gentilezza non è ben accolta o quantomeno è vista in maniera spregiativa: spesso viene paragonata a una debolezza o addirittura a una forma di ritardo mentale o a stupidità. Per Einhorn, invece, la gentilezza è innanzitutto una forma d’intelligenza: «La gentilezza, così come la concepisco […] non scaturisce mai dalla stupidità, ma piuttosto dal buon senso».
Imparare a parlare bene non basta. Se vogliamo usufruire delle parole di chi vuole trasmetterci un sapere, bisogna anche sforzarci di ascoltare bene. Questa è, in poche parole, la tesi di Plutarco ne L’arte di ascoltare. Ci troviamo ben lontani dal discorso attuale sull’ascolto che lo vede quasi esclusivamente come un fattore di autentica relazione con gli altri, come l’atto silenzioso, capace di aprirci alla soggettività altrui per coglierne i bisogni, i desideri e le frustrazioni. Ciò che viene esaminato in questo breve trattato è l’ascolto come “condizione necessaria per qualunque apprendimento”. In altre parole: come ascoltare coloro che sanno (o pretendono di sapere) in modo da trarne ciò che ci permette di progredire nella conoscenza del vero e del bene così cara ai platonici?
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